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Dicembre
13
2012

Manifesto per un Nuovo Municipalismo

Scritto da c.s.o.a. Angelina Cartella

Siamo donne e uomini da anni impegnati all’interno di realtà di base, centri sociali, comitati, associazioni, nella difesa dei beni comuni, del territorio, della salute, dei diritti dei lavoratori, dei piccoli produttori, dei migranti, promuovendo stili di vita compatibili, forme di autorganizzazione e democrazia diretta.
Siamo donne e uomini che stanno vivendo con profonda preoccupazione la pesante crisi economica, politica e sociale che sta attraversando il mondo intero e, in particolare, la nostra realtà locale, dove le condizioni sono aggravate dalla presenza opprimente di comitati di affari che hanno gestito, e gestiscono, la res pubblica usando i bilanci degli enti locali come bancomat privati senza limite di fido.
Di questa crisi non si riescono a intravedere soluzioni o sviluppi, quello che però appare certo è che porterà ad uno stravolgimento dell'attuale società, in forme non necessariamente indolori o pacifiche: quello cui siamo stati abituati, quello che è stato fino ad ora, non potrà e non sarà più possibile. Mentre il palazzo crolla, la politica tutta è impegnata solamente a salvaguardare lo status-quo, il proprio potere e prestigio, mai mettendo in discussione il sistema vigente, e dalla cosiddetta società civile si levano quasi unicamente spinte legalitarie e giustizialiste, come se le colpe fossero da attribuire esclusivamente ai politici corrotti e non a un sistema insostenibile e profondamente sbagliato.
É illusorio pensare che il sistema attuale si possa aggiustare o migliorare: questo sistema va cambiato radicalmente, liberandosi dal dominio dell’economia e riportando l’uomo con i suoi bisogni al centro delle scelte sociali e politiche. Non è un’utopia o un nostalgico richiamo alla rivoluzione popolare, ma un invito alle donne e agli uomini liberi e che hanno a cuore il futuro loro e dei loro figli, e della terra in cui vivono, di riappropriarsi di ciò di cui sono stati privati in questi anni di ubriacatura neo-liberista: del territorio svenduto alle multinazionali, dei beni comuni trasformati in merci, delle scuole e degli ospedali diventati aziende da cui trarre profitti, di quella vita politica di cui sono stati espropriati dalle classi dirigenti e dalla partitocrazia.

Reggio è diventata Città Metropolitana, ma il suo Modello è crollato
Lo scoppio di quella grande bolla mediatica e speculativa che è stata il “Modello Reggio” non può essere spiegato semplicisticamente con le colpe di Scopelliti e di parte del centro-destra, anche se macroscopiche. Individuando in questi i soli colpevoli, negheremmo quanto il “Modello Reggio” non sia altro che l’esasperazione del sistema neo-liberista che guarda gli enti locali come cinghie di trasmissione del denaro dalle casse pubbliche alle tasche private, e il territorio come un limone da spremere fino all’ultima goccia. Tutta Italia, reggini compresi, sembrano sconvolti, sorpresi dall’apprendere che la ‘ndrangheta non è solo racket e traffico di droga, riti arcaici e lupara, ma che è dentro le istituzioni, dentro le grandi imprese, dentro la finanza mondiale, dentro quelle logge massoniche coperte che, come grandi burattinai, tirano le fila del Potere. Hanno scoperto solamente oggi dell’insistenza di quel “Capitalismo a mano armata”, vorace e violento, che sta dietro alla stragrande maggioranza delle attività economiche nella nostra terra. Ma quale differenza c’è tra le società miste infiltrate dalla ‘ndrangheta e le partnership pubblico-private, dove le casse delle imprese private si riempiono di fondi pubblici? Il non aver fatto ricorso all’uso delle armi ha reso ad esempio la grande Veolia, che oggi sta fuggendo dalla Calabria, meno colpevole rispetto alla sequela di nefandezze commesse? E le sfilate di vip, i grandi concerti strapagati, le prime serate in diretta tv, che cosa sono se non il ricorso in salsa nostrana alla logica dei Grandi eventi? Certo l’anomalia reggina sta nell’insaziabile voracità della massomafia, ma il cliché non è affatto diverso dai modelli gestionali di altre città italiane governate da amministrazioni di ogni colore politico. E così il puntare il dito esclusivamente su Scopelliti & co. non basta, a meno che non serva come forma di auto-assolvimento: il “Modello Reggio” è figlio di quella che è oggi la gestione pubblica, e non sarebbe sufficiente sostituire il centro-destra con il centro-sinistra, che poco ha fatto in questi anni per evitare tutto questo e che nulla fa per smarcarsi dal “sistema”, né tantomeno scimmiottare forme di partecipazione popolare promosse dall’alto per legittimare il “cambiamento”. Non basterebbe nulla di tutto questo per bloccare quegli appetiti che si stanno preparando a gestire i “benefici” che deriveranno dalla trasformazione della Provincia reggina in Area Metropolitana, conseguenza dell’elevazione di Reggio Calabria al rango di Città Metropolitana: secondo le promesse dei vari sponsor che in questi ultimi anni si sono avvicendati trasversalmente nel decantarne le lodi, tra i principali benefici ci sarebbe proprio una aumentata capacità di spesa, naturalmente spending-review e austerity permettendo. Nel mentre si avviano le procedure per la sua costituzione, l’Area Metropolitana sta comunque funzionando bene come specchietto per le allodole, fumo negli occhi dei cittadini gettato da quei tanti amministratori locali che rimandano all’avvio di questa Area per dare risposte sulle casse comunali dissestate.

Rifiutiamo il Debito per un riscatto sociale
L’incalcolabile debito del Comune di Reggio Calabria, così come quelli di tutte le nostre amministrazioni locali, sommato al debito pubblico nazionale che comunque ci vorrebbero costringere a pagare, può rappresentare un’ipoteca che graverà sulle generazioni a venire, cancellandone ogni possibilità di futuro. Un debito che ribadiamo non è frutto esclusivamente di malagestione, come si cerca ostinatamente di far credere: il debito è un elemento strutturale del sistema capitalistico, incapace di sostenere altrimenti la sempre più crescente produzione di merci. Ci hanno inculcato negli anni che il ricorso all’indebitamento, lo spendere più delle reali possibilità, più delle entrate, sia una cosa normale: lo è diventato per le famiglie continuamente costrette a ricorrere a mutui, prestiti e finanziarie, ne è succube a maggior ragione lo Stato. Le politiche di tutti i governi che si sono alternati negli ultimi anni sono state sempre indirizzate verso l’aumento della spesa pubblica per incentivare la crescita del PIL, come il finanziamento della rottamazione delle automobili o le agevolazioni fiscali per la costruzione di nuove case, ma soprattutto attraverso il ricorso sistematico alla realizzazione di grandi opere e grandi eventi, spesso inutili o peggio dannosi. Nonostante le ripetute promesse però, all’aumento esponenziale della spesa pubblica, non è corrisposto una diminuzione del tasso di disoccupazione. Questo indebitamento è servito e continua a servire solo a garantire l’incremento della domanda: è il dominio del mercato sulla politica. Oggi ci vogliono costringere a pagare questo enorme debito, aggravando il già pesante disagio sociale. Questo pesante debito può, e deve secondo noi, rappresentare quella molla per dire: basta, così non si può andare avanti, dobbiamo cambiare! Ed è solo attraverso un’assunzione di responsabilità collettiva che questo cambiamento può avvenire.

Oggi più che mai il lavoro avvilisce l’uomo
La crisi attuale ha reso chiaro ed evidente a tutti che il “lavoro”, così come lo abbiamo conosciuto finora, è giunto ad una svolta epocale. Quotidianamente leggiamo ormai di fabbriche in crisi, di licenziamenti, di aumento del tasso di disoccupazione, alimentando paure e tensioni sociali. Per mantenere un posto di lavoro si resiste con le unghie e con i denti, lottando contro ogni possibile concorrente, rendendosi disponibili a rinunciare a quel che resta di diritti, welfare, sicurezza, minacciando di bruciarsi con la benzina, buttarsi da una torre o seppellirsi con la dinamite a centinaia di metri sotto il suolo. Ma se il suicidio è diventata l'estrema ratio per difendere il proprio posto di lavoro, vuol dire che è proprio ora di cominciare a ragionare in un altro modo, immaginando forme di lavoro fatte a misura d’uomo, finalizzate all’appagamento dei bisogni reali delle comunità e non allo sviluppo dei bilanci delle grandi aziende, con la consapevolezza che ad una società moderna forse tutto questo lavoro non occorra poi tanto…. Allora, invece di sole battaglie di una resistenza sempre più estrema per difendere il proprio posto di lavoro, che spesso significa super-sfruttamento a fronte dei tanti disoccupati, riparliamo di come sia necessario lavorare meno, lavorare tutti! Liberiamo il tempo necessario alla produzione di merci (non di beni, non di servizi, ma di quelle merci che saremo poi costretti a comprare) per recuperare le terre incolte e renderle produttive, con piccoli orti casalinghi o collettivi; recuperiamo e rioccupiamo gli stabili abbandonati invece di costruire nuove case (per chi, non si capisce) che erodono il territorio; promuoviamo il rimboschimento,  il recupero dell'assetto idrogeologico, la protezione del territorio; mettiamo insieme asili collettivi, gas, esperienze di autoproduzione, piccole comunità di mutuo soccorso dove scambiare competenze, rivalorizzare il baratto, eliminare il denaro (che tanto non c'è…) il più possibile, rimettendo al centro le persone, le relazioni, gli scambi, la qualità della vita così come del lavoro, modificando gli stili di una vita non più sostenibile per noi e per il pianeta, recuperando reddito indiretto, rapporti e qualità. Disegnare nuove forme di lavoro è possibile, a patto però di disintossicarsi dalla droga liberista per cui tutto è mercato, tutto è denaro, in cui i bisogni sono dettati non dalle reali esigenze ma dalle mode e dalla pubblicità, narcotico con cui ormai ci hanno tutti assuefatti.

Territorio e comunità: due concetti chiave da cui ripartire
L’attuale crisi è stata favorita da un processo di atomizzazione, di individualizzazione che ha modificato radicalmente la società negli ultimi decenni. Non è solo l’idea di classe ad essere stata rigettata dalle masse quasi con ribrezzo, ma lo stesso concetto di comunità, l’idea di essere tutti sulla stessa barca. Dalla frammentazione delle grandi catene produttive prima, fino ad arrivare all’avvento dei social network oggi, l’uomo moderno ha visto sempre più ridursi gli spazi di aggregazione, di socializzazione, di confronto, e questo progressivo isolamento ne ha esaltato sempre di più l’istinto individualista e lo spirito di competizione. Dobbiamo necessariamente invertire la rotta, abbandonare la società del capitale, la società dell’Io, e puntare senza tentennamento alcuno a una società solidale e sostenibile, a una società del Noi. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’insorgere dentro la scena politica di un nuovo soggetto, quello delle comunità resistenti che hanno osato alzare la testa e si sono ribellate da Nord a Sud in difesa del proprio territorio e del futuro dei propri figli. Al di là delle mille vertenze che in tutto il territorio nazionale sono nate contro la realizzazione di opere invasive e inquinanti, forme di resistenza popolare spesso incapaci però di superare i confini limitati dei propri obiettivi particolari, il dato inconfutabile è che lì dove le popolazioni sono riuscite a riappropriarsi dei loro “territori”, intesi non solamente come luogo fisico ma comprensivo delle relazioni sociali che in esso si sviluppano, sono ridiventate “comunità”, ritessendo legami sociali ormai cancellati dalla società moderna, e riacquistando dignità attraverso l'autorganizzazione e l'autodeterminazione delle loro vite. Comunità capaci non solo di opporsi e resistere con ostinazione a chi antepone l'arrogante ragione della forza alla forza delle ragioni, ma anche di realizzare forme di democrazia ed azione diretta a difesa dei propri territori, sviluppando una consapevole critica del modello di sviluppo, ed affinando le ragioni di un'alternativa radicale. Alla deriva individualista della società moderna, al progressivo immiserimento economico, culturale e sociale, non si può che contrapporre il risveglio dell’appartenenza comunitaria: comunità aperte, inclusive, costituite da quei soggetti che, vivendo il (e nel) proprio territorio, hanno deciso di non essere più meri soggetti passivi ma protagonisti, in grado di progettare e ipotizzare modelli sociali, relazionali, economici e culturali adeguati ai bisogni reali della gente e compatibili con l’ambiente. In un’epoca in cui ci hanno costretto a credere che ogni cosa deve essere di qualcuno - e se qualcosa non ha un padrone ben definito allora non è di nessuno – la riappropriazione dei beni comuni diventa un dovere: la possibilità di ridisegnare un futuro per questa società, di poter scegliere come sviluppare il proprio territorio, passa attraverso la riconquista di quei beni che per loro natura sono patrimonio della comunità tutta, ma oggi diventati merci da vendere e comprare nella più assoluta normalità, e anche delle gestioni dei servizi locali, costante fonte di guadagno per le imprese private ma perenne voce in rosso per le casse dei cittadini.

Che fare?
La nostra ambizione non è quella di sedere in qualche scranno di un consiglio comunale, né aspiriamo a occupare qualche posizione di pseudo-potere: noi vogliamo “solamente” vivere in un mondo migliore, in una società più giusta, rispettosa realmente di tutto e di tutti, e vogliamo lavorare per realizzare questo progetto. Il nostro disegno non è quello di costituire una qualche lista civica “per cambiare il sistema dall’interno”, riproponendo meccanismi di delega per sedersi a qualche tavolo con gli “altri” e mercanteggiare qualche briciola di diritti in cambio di grosse fette di futuro: noi aspiriamo a un nuovo municipalismo, fatto da comitati popolari, assemblee pubbliche, dalla partecipazione degli abitanti del territorio che possano disegnare, progettare, costruire la loro città e non subirla passivamente. L’unico modo per farlo è di essere presenti nei territori, assumersene le problematiche, costruire protagonismo e mobilitazione, per questo chiediamo a chi ha a cuore le sorti di questa terra, di intraprendere un percorso che vogliamo costruire insieme, incontrandoci ogni giovedì alle ore 19.00 alla sede di Nuvola Rossa, in via II novembre 82 a Villa San Giovanni.

c.s.c. Nuvola Rossa
c.s.o.a. Angelina Cartella
Collettivo UniRC – AteneinRivolta