Le biomasse... queste sconosciute!
Negli ultimi tempi e sponsorizzati da un certo ambientalismo, vediamo proporre dappertutto progetti per costruire centrali a biomasse! Energia pulita, energia che non inquina! Ma è veramente così? E cosa sono queste biomasse? Sono materiali di natura organica utilizzati come “fonti energetiche rinnovabili”: residui forestali o di coltivazioni destinate all’alimentazione, scarti di attività industriali (come i trucioli di legno), delle aziende zootecniche o dalla parte organica dei rifiuti urbani, ma anche piante espressamente coltivate per questo scopo.
Ma per dare a queste centrali la patente di “ecosostenibilità” dobbiamo definire alcuni criteri. In primo luogo le biomasse sono “rinnovabili” quando la quantità sottratta all’ambiente, naturale o agricolo, equivale a quella riproducibile nello stesso arco di tempo: se in un anno la produzione di un campo coltivato per biomassa è di una tonnellata, in quell’anno si potrà bruciare una tonnellata di biomassa! Questo è fondamentale per cercare di portare il bilancio di produzione di CO2 - la famosa anidride carbonica responsabile dell’effetto serra - almeno in pareggio. A scuola abbiamo imparato come le piante, attraverso un processo di fotosintesi, trasformino la CO2 in nutrimento e quindi in nuova biomassa: bruciando biomasse, la CO2 prodotta sarà quindi fissata dalle nuove colture, non contribuendo agli effetti negativi sul clima. Ma il conto non è così semplice perché bisogna considerare che la CO2 liberata nell’aria dalla combustione è quella fissata nell’intero arco di vita: bruciare una foresta centenaria comporta il liberare nell’aria la CO2 fissata in un secolo! Per non rendere negativo il bilancio di produzione della CO2 bisogna quindi che la conversione della biomassa in energia sia compatibile con i ritmi naturali, e il tempo dalla coltivazione al consumo finale deve essere il più breve possibile.
Inoltre, se l’energia prodotta dalle biomasse non è maggiore di quella utilizzata per produrre le biomasse stesse, che senso avrebbe bruciarle? Per realizzare un saldo energetico positivo bisogna considerare il sistema di produzione delle biomasse: quelle “naturali”, come le sterpaglie dei boschi o le coltivazioni biologiche, consentono un consumo energetico minimo. Coltivare con le tecniche dell’agricoltura industriale implica invece un consumo energetico 50 volte superiore a quello dell’agricoltura tradizionale: realizzare una tonnellata di concimi azotati da spargere nei campi comporta il consumo di una quantità di energia equivalente a circa due tonnellate di petrolio!
Anche la distanza incide in questo bilancio: il luogo di trasformazione delle biomasse deve essere vicino al luogo di produzione perché trasporti troppo lunghi aumenterebbero lo spreco di energia, senza contare che importare biomasse dall’estero solitamente significa contribuire allo sfruttamento del Sud del mondo. Se si considera che le biomasse, soprattutto quelle derivanti da colture, spesso non sono disponibili tutto l’anno, garantire l’approvvigionamento nel rispetto delle distanze - che l’Unione Europea “consiglia” di poche decine di chilometri - diventa spesso impossibile.
Per non parlare poi dei campi destinati a biomasse e biocarburanti che, basandosi su monocolture intensive spesso anche transgeniche, portano a gravi squilibri nell'ecosistema.
L'utilizzo migliore delle biomasse non è certo quello della combustione, perché si può ottenere di più distruggendo di meno con processi di digestione anaerobica, che producono biogas e digestato.
Intanto si continuano a costruire queste centrali, sempre e comunque, per un motivo: fregarsi i finanziamenti pubblici con i Cip6!
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